Canapa al Macero
Quando in Italia si coltivava la Canapa
Nella storia della civiltà contadina, forse il prodotto agricolo che ha lasciato dietro di se le maggiori tracce dell’arte agraria, caratterizzando nello stesso tempo la topografia dei luoghi, è senza dubbio la canapa.
Le tracce più evidenti dell’antica coltivazione nei nostri territori, oltre alla presenza di vari attrezzi, sono costituite dalla presenza dei maceri.
I maceri sono bacini artificiali di acqua stagnante, un tempo utilizzati in Emilia-Romagna per la lavorazione della canapa. Questa coltivazione, introdotta in Italia tra il X e l’VIII secolo a.C., era particolarmente diffusa in Pianura Padana e Campania. Il tessuto di canapa veniva utilizzato soprattutto per abiti di contadini e monaci e per la produzione di sacchi, corde e vele. Con lo sviluppo della navigazione a vela la canapa divenne un elemento fondamentale e il suo commercio assunse un rilevante carattere economico-imprenditoriale. Agli inizi del Novecento la Penisola era seconda solo alla Russia e la provincia di Ferrara era riconosciuta come massima produttrice nazionale di canapa tessile (363 000 quintali l’anno). Il territorio ferrarese ospitava allora circa 10.000 maceri. L’intera società era permeata di usi e tradizioni legati alla canapa.
Nella seconda metà del XX secolo, con il declino e l’abbandono definitivo di questo materiale, sostituito dal cotone e dalle fibre sintetiche, molti di questi stagni vennero chiusi per recuperare terreni agricoli ed edificabili. Nel 2004 la Stazione di Ecologia del Museo di Storia Naturale e la Provincia di Ferrara hanno attuato un censimento dei maceri rimasti.
Nella provincia ne risultano circa 1400. Nel territorio comunale di Ferrara i maceri sono 440, localizzati per lo più nelle zone a Sud e Nord-Est della città.
In origine, l’impiego della fibra e quindi anche l’entità produttiva, era limitato a sopperire i bisogni familiari, una sorta di “economia chiusa” che rimarrà tale fino al tramonto della società medievale.
All’inizio del ‘500 l’apparizione del macero nelle campagne, concomitante con lo sviluppo manifatturiero e commerciale di questa fibra, ed il suo affermarsi produttivo nelle campagne bolognesi e modenesi, è connessa ad un’agricoltura basata sul contratto di mezzadria. Ai tempi in cui la produzione era limitata all’economia della famiglia colonica, la macerazione della canapa non avveniva mediante l’immersione degli steli nell’acqua stagnante, ma mediante il ripetersi di numerose esposizioni alla rugiada notturna degli steli su prati erbosi. Un sistema, oggi inimmaginabile, allora molto più facilmente realizzabile grazie alle condizioni climatiche molto piovose che caratterizzarono i secoli 13° e 14°.
La storia del macero ed il suo diffondersi cammina di pari passo con lo sviluppo imprenditoriale dell’industria e del commercio della canapa specialmente nel bolognese, guidato dalle corporazioni dei gargiolai, cordai e drappieri.
Nella maggior parte dei comuni della “bassa”, i maceri furono escavati nelle aree più depresse dei poderi per favorire la raccolta delle acque piovane attraverso gli scoli. Fra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 erano utilizzate le depressioni acquitrinose, i fossati vallivi, purché arginati. In questi stagni la canapa era macerata mediante la formazione di “postoni” (zattere) di una o più “mani” (strati) di fasci (secondo la profondità dello stagno), la cui immersione era mantenuta per sei o otto giorni, mediante stanghe di legno ancorate al suolo o mediante il caricamento delle zattere con sassi di fiume.
Il macero che di solito si trovava nei pressi di una casa, anche se il suo uso serviva di norma anche ad altre famiglie coloniche, non era soltanto uno strumento per macerare la canapa: serviva per attingere l’acqua per l’orto, per fare il bagno estivo a tutta la famiglia contadina, in particolare ai ragazzi i quali “avrebbero voluto stare in acqua tutto il giorno”. Inoltre, serviva quale risorsa ittica, per allevare oche e anatroccoli e per lavare i grandi bucati che le numerose famiglie contadine portavano su un carro trainato da una mucca. A Nonantola alcuni anni fa, uno dei maceri sopravissuti (oggi tutelati da severe norme), è stato riutilizzato da alcuni volontari ex canapai, per macerare un notevole quantitativo di canapa coltivata per scopi didattici. Le complesse e faticose fasi della lavorazione sono state fotografate, trasformandosi in una preziosa e irripetibile documentazione.
La canapa (Cannabis sativa) appartiene all’ordine delle Urticali; le sue foglie hanno ghiandole produttrici di THC (tetraidrocannabinolo), ma in misura minore rispetto a Cannabis indica
La semina avveniva in marzo. Ad agosto le piante venivano tagliate, disposte sul terreno ed essiccate. Dopo aver creato dei fasci di 10-20 bacchette (“mannelle”), si procedeva con la macerazione. I fasci venivano calati in acqua, legati tra loro a formare grandi zattere che venivano fatte affondare ponendovi sopra dei sassi pesanti. La macerazione durava sette-dieci giorni, poi aveva luogo la lavatura. Quindi, le bacchette macerate venivano stese al sole per due o tre giorni in modo da farle essiccare. A questo punto, con l’operazione della scavezzatura la pianta veniva liberata dalla parte legnosa e la rimanente fibra tessile veniva battuta, pettinata ed avvolta in bobine per essere filata o intrecciata.
In inverno, le vasche dei maceri, usate anche per allevare pesci commestibili, venivano svuotate e liberate dai sedimenti e dai sassi depositati sul fondo. A metà luglio, un mese prima del raccolto della canapa, in maceri venivano nuovamente allagati, tramite i fossati della rete idrica circostante. La coltivazione della canapa tessile è attualmente in ripresa in varie parti di Italia, per la sua estrema versatilità: viene utilizzata nel tessile, nell’alimentazione umana, in cosmesi, in edilizia, nell’industria dell’auto e per le lettiere di animali.
La flora
L’habitat acquatico di un macero non è molto profondo e le acque sono poco trasparenti, ricche di nutrienti provenienti dai vicini campi coltivati. Diverse specie tipiche sono ormai rare.
Sulla superficie è facile osservare piante galleggianti con piccolissime foglie: si tratta delle lenticchie d’acqua (Lemna spp., Spirodela polyrrhiza). Se la luce riesce a filtrare, è possibile la crescita di piante che radicano sul fondo, delle quali emergono solo i fiori (Myriophyllum spicatum, Ranunculus thricophyllus, Potamogeton crispus, Persicaria amphibia). A volte la superficie è coperta dalle foglie della genziana o della felce d’acqua (Nymphoides peltata e Salvinia natans). Le sponde sono piuttosto ripide, originariamente quasi verticali. Le piante predominanti in questa zona sono la cannuccia di palude e le tife (Typha latifolia e T. angustifolia), alcuni giunchi ed il coltellaccio: sono tutte piante alte, a fusti e foglie verdi tra le quali possono spiccare il giallo dei fiori di iris, ranuncoli e crescione anfibio, il porpora della salcerella, il rosa del giunco fiorito, il viola della dulcamara. Attorno allo specchio d’acqua possono coesistere diverse specie arboree: fra le più comuni troviamo i salici bianchi, gli olmi, le farnie e i pioppi bianchi o neri. Numerosi sono anche gli arbusti come la sanguinella, il rovo (Rubus ulmifolius e R. coesius), il sambuco ed il prugnolo, talora avvolti dalle liane della brionia comune dai frutti rossi, belli ma velenosi, e dell’edera.
La fauna
Molte specie animali possono trovare ospitalità all’interno dei maceri; accanto ai vari organismi unicellulari, qui trovano riparo molluschi gasteropodi dei generi Viviparus, Stagnicola, Planorbarius, Planorbis, insetti acquatici come i rarissimi coleotteri ditiscidi e le libellule, crostacei come il gamberetto Palaemonetes antennarius, gli isopodi e gli anfipodi acquatici. Nei maceri si può avvistare la licena delle paludi, una bella farfalla protetta. È possibile vedere molti pesci: frequenti sono il pescegatto e la carpa, più rari invece la tinca e l’abramide. Sono molti anche gli anfibi e i rettili che utilizzano queste zone per la sosta, l’alimentazione e la riproduzione: le rane verdi, il rospo comune ed il rospo smeraldino, la natrice dal collare. Più raro, ma non impossibile, è l’avvistamento di tritoni (Triturus carnifex e Lissotriton vulgaris) e della testuggine palustre europea. Numerosi sono gli uccelli che sostano o nidificano: gallinelle d’acqua, aironi cenerini, nitticore, tarabusini e germani reali. La nutria, introdotta dal Sud America, è sicuramente il mammifero più presente, mentre molto più rara è l’arvicola anfibia.
Negli ultimi decenni è sempre più frequente la presenza di specie esotiche: nutrie, rane toro e gamberi rossi della Louisiana e tante specie di pesci, introdotti dell’uomo per l’allevamento e spesso abbandonati nell’ambiente, si sono diffusi nelle acque di pianura, causando grossi problemi alle specie autoctone ed agli ecosistemi.
(Matteo Perrone)
Fonti: Museo Ferrara; Giornale del Po.
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